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E’ passata una settimana dall’elezione di Barack Hussein Obama alla Presidenza Usa. E visto che non ho alcun obbligo di stare sulla notizia mi sono preso del tempo per capire meglio quello che viene definito un cambiamento epocale tanto per gli Usa che per il mondo intero.

Ho scelto tre punti di vista tra gli innumerevoli a disposizione.

Il primo è un brano tratto da un manuale di storia contemporanea che descrive la nascita del Partito Democratico negli Usa a fine Ottocento (quanto attuale sia attuale sta a voi deciderlo).

Il secondo brano è invece un articolo di Piero Sansonetti, scritto all’indomani dell’elezione di Barack, intitolato emblematicamente “Black Power”.

Il terzo e ultimo è invece un’intervista di Marco d’Eramo ad Alexander Cockburn giornalista del giornale di sinistra americano “The Nation” posto su posizioni molto critiche nei confronti di Obama.

Il post questa volta sarà un po’ lunghetto, lo ammetto, ma vi assicuro che è abbastanza scorrevole.

Buona lettura e buona riflessione!



Il Partito Democratico

tratto da “L’ETA’ DELLE RIVOLUZIONI E L’OTTOCENTO

[di Scipione Guarracino – Peppino Ortoleva – Marco Revelli; pag 639]

Carattere peculiare del sistema politico statunitense era il fatto che nessuno dei due grandi partiti dominanti rappresentava un unico gruppo o strato sociale o un unico interesse economico, ma costituiva il punto d’incontro e di mediazione tra settori sociali differenti: così il partito repubblicano era insieme il partito dei settori capitalistici avanzati e degli agricoltori del Midwest e dell’ovest, e godette a lungo anche dell’appoggio di un settore considerevole della classe operaia. D’altra parte il Partito democratico raccoglieva sia i voti dei tradizionali ceti dominanti del sud, sia quelli della massa dei lavoratori immigrati. [..]

Democratici erano in primo luogo i banchieri del sud: i vecchi ceti privilegiati, ma anche la popolazione bianca meno abbiente, politicamente e socialmente subordinata all’antica aristocrazia dei piantatori a cui li legava il comune odio razziale contro i neri.

Questi ultimi avrebbero certamente votato per il Partito Repubblicano, favorevole all’emancipazione: ma il compromesso del 1877, restituendo il sud ai suoi antichi dirigenti (dopo la loro sconfitta durante la Guerra di Secessione contro gli stati del nord), aveva di fatto soppresso tutti i diritti politici e civili, tra cui quello di voto, della popolazione di colore.

Democratici erano d’altra parte gli imprenditori delle grandi città, in particolare gli immigrati cattolici, tra cui gli irlandesi: la contrapposizione tra repubblicani  e democratici era pertanto anche a base religiosa, in quanto i primi tendevano a presentarsi come il partito dei protestanti, mentre fra i secondi, partito della tolleranza religiosa, i cattolici esercitavano notevole influenza.

Una complessa crisi coinvolse tuttavia gli Stati Uniti nel periodo 1892-95: essa riguardò non solo l’ambito politico, ma anche quello sociale ed economico. L’applicazione del liberismo si dimostrò insufficiente a garantire uno sviluppo economico ordinato. […] Contemporaneamente il movimento operaio conobbe un periodo di intensa combattività. [..]

In quegli stessi anni venne completata la soppressione delle ultime tribù indiane indipendenti.  […]

A partire dagli anni novanta il predominio politico dei repubblicani fu insidiato localmente, soprattutto nelle grandi città. L’accorta gestione delle risorse economiche delle città da parte dei sindaci e dei governanti democratici permise d’intessere potenti reti clientelari che, monopolizzando la distribuzione dei posti di lavoro e degli appalti, assunsero l’aspetto di vere e proprie “macchine” permanenti di potere. Il rapporto clientelare tra sistema economico e mondo politico-amministrativo era peraltro una diretta conseguenza del sistema politico americano, fondato su due grandi partiti privi di una reale struttura organizzativa e finanziaria.


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Black Power!

di Piero Sansonetti (tratto da LIBERAZIONE, 06-11-2008)

E’ una esagerazione, oggi, fare il titolo di «Liberazione» usando quelle vecchie e mitiche parole: «Black power»? Non credo. E’ un modo, forse un filo ironico, per festeggiare questa grandiosa vittoria politica di Obama, e per ricordare le tante lotte, che appena quaranta e trenta anni fa, hanno iniziato a svellere dalla vita civile americana la pianta orrenda del razzismo, figlia del peccato originale – come lo ha definito su queste pagine, Massimo Cavallini – e cioè dello schiavismo che fino a ieri aveva impedito alla democrazia americana di diventare piena e grande democrazia. […]

Il razzismo in America è una bestia velenosa. Antica, feroce, perfida e brutta. E non è vero che è un male di tanto tempo fa. Il generale Colin Powell, per esempio, nella sua autobiografia racconta di quella volta che cercò di entrare in un ristorante del Texas – era già generale a 5 stelle, ma era vestito in borghese – e il proprietario lo invitò gentilmente ad uscire, a girare intorno al palazzo e a passare dalla porta di servizio per sistemarsi nella saletta per i negri. […]

Badate che la persecuzione dei neri è ancora all’ordine del giorno. La legge di Jim Crow vige. Nei fatti. Perché i neri, tutti i neri, sono più poveri dei bianchi. Perché un terzo della popolazione carceraria è nera (e i neri sono solo il 13 per cento della popolazione). Perché le statistiche dicono che se sei un nero giovane, tra i 13 e i 45 anni, hai una probabilità su tre di stare in prigione, o esserci stato o di finirci presto.

Ho scritto: la legge di Jim Crow vige. Vige o vigeva? Vige, o da ieri non esiste più? Io penso che da ieri la legge di Jim Crow sia fuori corso. Anche se ci vorrà tempo, molto tempo, per cancellarne i malefici effetti.

Perché? Provate a capire cosa succederà adesso nell’immaginario di milioni di bianchi americani, i quali ogni giorno, al telegiornale, vedranno uno dei figli dei loro schiavi di una volta, che ora è il presidente, che ora ha il potere, comanda. Come cambieranno queste persone, come funzionerà sulla loro cultura, sulla loro etica, questa realizzazione del «Black power»? Come diventerà l’America, che idea si farà di se stessa?

Sta in queste domande la grandiosità di quello che è successo la scorsa notte. L’America non è più quella di prima. Il muro che teneva lontani i neri dalla pienezza del diritto e della democrazia, il muro vergognoso costruito duecento anni fa dai mercanti di schiavi – simbolo della sopraffazione, dell’ingiustizia, della violenza, della volgarità – è venuto giù, si è sgretolato, ed è un avvenimento importante come la caduta del muro di Berlino.

Ora Obama va alla prova. In quali condizioni politiche? La prima cosa che si può dire, che è evidente e davanti a tutti, è che non è un presidente prigioniero di un establishment o di un gruppo di potere. Questa è una novità grandissima. Obama non è la costruzione di una lobby, di un circolo di potere, di un pezzo di borghesia. Come per esempio fu Kennedy, come – seppure in misura minore e in forme diverse – fu Clinton. E come naturalmente sono sempre stati i presidenti repubblicani. Obama è se stesso. Ha vinto lui le elezioni, col suo carisma grandioso, con la sua intelligenza, con l’aiuto specialissimo di Michelle, di sua moglie. Gli apparati sono venuti dopo. Non sono loro ad averlo costruito, loro sono arrivati quando lui stava vincendo, hanno bussato alla sua porta, hanno chiesto: «possiamo diventare i tuoi apparati?».

Obama, in quest’epoca di eclissi della politica, di asservimento della politica, o di ludibrio della politica, ha affermato – dopo anni – l’autonomia e la supremazia della politica. Questa è la sua grande forza. Formidabile punto di partenza. Si tratterà di vedere come la userà questa forza, quanto vorrà portare avanti l cambiamento, in che direzione. Cioè come affronterà, al momento di governare, la crisi del capitalismo reaganiano sulla quale ha costruito questa sua vittoria. Cercherà di resuscitare quel capitalismo o lavorerà per una alternativa?

Noi, cioè noi sinistra italiana ed europea, faremmo bene a non essere troppo schizzinosi. Questo giornale una decina di mesi fa titolò: la speranza viene dall’America, riferendosi a Obama, dopo le sue prime vittorie alle primarie. Quel titolo provocò parecchie polemiche, perché a molti la nostra posizione sembrò un po’ visionaria, ingenua. Non era visionaria. La realtà dei fatti, dalla quale partire, è questa: di fronte alla crisi, di fronte allo sballottolamento del liberismo, l’Europa sta reagendo senza fantasia, impaurita, e con la corsa a destra. Non solo con la corsa a destra, ma con il rifiuto della politica, il ricorso all’economia, all’Esercito, alla magistratura. Nelle Americhe – plurale: del sud e del nord – assistiamo a un movimento di segno opposto. In Brasile, in Bolivia, in quasi tutto il continente latino, e ora negli Usa, la politica torna prepotentemente, si rivolge al popolo, riesce a parlagli a coinvolgerlo, si muove verso sinistra. E, vedete, non sono più alla fine i sistemi politici o elettorali a determinare chi vince e chi perde. Sono le idee, le passioni, le capacità politiche.

black-power1Black Power

L’“Obomania” e la sinistra critica

di Marco d’Eramo (tratto da IL MANIFESTO, 02-11-2008)

Alexander Cockburn non trova nessuna ragione positiva per votare per Obama, ma solo ragioni per votare contro McCain-Palin. Allora cosa c’è da sperare? gli chiedo. «Da quello che si è visto finora, pochissimo. Le sue posizioni nei quattro anni al senato sono state tutte di centrodestra, e assai opportuniste. Il suo istinto fondamentale è il moderatismo, il bipartisanismo, il centrismo. La prima volta che io ne ho sentito parlare, fu nel 2006 quando andò in Connecticut ad appoggiare nelle primarie democratiche quel bieco figuro che è Joe Lieberman (l’ex candidato democratico alla vice presidenza con Al Gore nel 2000, ora divenuto sostenitore di John McCain, esponente di spicco della lobby ebraica) contro il candidato pacifista.

Tutte le posizioni progressiste che aveva preso nelle primarie per conquistare la base di sinistra, le ha poi rinnegate. Per limitare la corruzione elettorale, si era impegnato a limitare le spese al finanziamento pubblico. McCain ha mantenuto la promessa, ma Obama appena ha visto che stava raccogliendo il triplo dei fondi di McCain ha detto che non avrebbe usufruito del finanziamento pubblico per poter avere mani libere. A febbraio si era dichiarato contro le intercettazioni non autorizzate da un giudice, ma poi a giugno ha votato a favore sostenendo che «la capacità di monitorare e rintracciare persone che vogliono attaccare gli Stati uniti è uno strumento vitale dell’anti-terrorismo». Si era leggermente sbilanciato a favore dei palestinesi, ma poi a giugno è corso a parlare alla comunità ebraica per dichiarare il suo indefettibile sostegno a qualunque politica israeliana.

Aveva promesso un ritiro immediato dall’Iraq, ora si dice pronto a un ritiro responsabile, cioè diluito nel tempo e non totale. Soprattutto, si è impegnato ad aumentare di 90.000 unità le forze armate e ad accrescere ancora di più il bilancio della difesa. Se continua come adesso, farà piccole riformine. E soprattutto, si mangerà in spese militari i soldi che dovrebbe destinare alle riforme […]

I suoi principali consiglieri sono della scuola monetarista, sono Chicago boys. E il suo ministro del tesoro verrà sicuramente da un gigante di Wall street. […]
Wall street ha dato un sacco di soldi a Obama che ha raccolto una cifra record. Se questa stessa somma l’avessero tirata su i repubblicani, ora tutti i liberal d’America starebbero a recriminare sul gran capitale che vuole far eleggere il suo comitato d’affari. Se viene sostenuto anche da uno di destra come Colin Powell e dalla voce del capitale mondiale, cioè il Financial Time, qualcosa vorrà pur dire […]

La gente è incazzata nera con il salvataggio delle banche. Vogliono vedere i banchieri di Wall Street impiccati e appesi dai ponti. Mi piace il senatore del Montana, John Tester, quando dice che la gente «vuole vedere i banchieri che hanno schiantato Wall Street in divisa da carcerati a raccogliere lattine lungo le autostrade» (spesso negli Usa la manutenzione stradale è assolta da detenuti) […]

Se Obama avrà la maggioranza parlamentare che gli serve per governare, la prima cosa che dovrebbe fare è una commissione d’inchiesta per incriminare i banchieri d Wall Street. Ma il fatto è che Obama ha dato per scontato l’appoggio della sinistra e si spinto sempre più a destra. E la sinistra non ha fatto nulla per mettergli pressione. Non ci ha nemmeno provato. Guarda uno come Michael Moore che nel 2000 aveva appoggiato Nader: ora non ha espresso nemmeno la più piccola critica verso Obama. […]

C’è una tremenda inflazione delle aspettative e un’attesa esagerata per quel che un presidente può fare. In economia il presidente può poco senza il Congresso. Mi fanno imbestialire quelli che dicono che Obama restaurerà l’autorevolezza americana, il buon nome dell’America. Siamo tutti contenti perché Obama restaurerà l’impero americano! Perché sarà un imperatore buono, perché sarà un Tito Flavio. Ma siamo matti? Nessuno sa più cosa è l’internazionalismo. Se vivevi nel IV secolo dopo Cristo, che cosa ti auguravi? un imperatore buono o che i barbari si riversassero a dissolvere l’impero? La sinistra non sa più dove è finito l’anti-imperialismo. Se non è scemo, Obama chiuderà Guantanamo e metterà fuori legge le torture, ma solo quelle più estreme, non tutte. E così sarà un imperatore buono e rafforzerà l’impero e potrà bombardare l’Afghanistan, strangolare per fame i palestinesi, rovesciare Chavez, riprendere il controllo dell’America latina. Da questo punto di vista, Bush è stato un ottimo presidente, ha fatto più lui per minare l’impero di qualunque anti-imperialista al mondo. Non dobbiamo augurarci dei Tito Flavio, ma dei Nerone.


imperialismo

Non so se Obama cambierà il mondo o se non sarà altro che un ennesimo imperatore romano dalla faccia più scura. In ogni caso sono sicuro che adesso da qualche parte Martin Luther King e Malcom X stanno ridendo mentre si divertono a sputare in testa a Richard Nixon.

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